il Venerdi del 24/07/2021

Il Parlamento ha riconosciuto la Lingua dei segni. Ma non per tutti è una buona notizia. Anzi, ha riacceso un vecchio scontro

In Italia ci sono 44 mila persone sorde. Qualcuno dice 60 mila. E questo non è l’unico punto di disaccordo. In effetti, la comunità sorda italiana è probabilmente la più divisa d’Europa, spaccata da oltre trent’anni in una battaglia che ha coinvolto politici, scienziati, linguisti e antropologi. Il punto di svolta è arrivato il 19 maggio, quando il Parlamento ha riconosciuto ufficialmente la lingua italiana dei segni (Lis). Il provvedimento era in ballo da cinque legislature, e alla fine è stato Matteo Salvini – “con un blitz attuato nottetempo” – a inserirlo in un emendamento al Decreto sostegni. Per l’Ens, Ente nazionale sordi, la legittimazione della Lis è “una conquista non solo per le persone sorde, ma per tutta Italia”; per la Fiadda, Famiglie italiane associate per la difesa dei diritti degli audiolesi, un “disastroso emendamento, non gradito nemmeno alle persone sorde segnanti”.
Il terreno di scontro, a un primo sguardo, è medico-scientifico. Ci sono ricerche che suggeriscono che la lingua dei segni sia inutile o addirittura dannosa: oggi, grazie agli impianti cocleari, anche i bambini con sordità profonda possono imparare a sentire e parlare quasi come gli udenti – e la lingua segnata, secondo alcune ricerche, entra in conflitto con l’apprendimento della lingua vocale. Altri studi smentiscono. E sottolineano che gli impianti cocleari non mettono al riparo il bambino dal rischio di deficit linguistici: solo una lingua non ostacolata da barriere sensoriali può garantire il pieno sviluppo del linguaggio.
Unico punto fermo: le abilità linguistiche, per svilupparsi pienamente, richiedono l’esposizione stabile e precoce (0-3 anni) a una lingua. Una qualsiasi. Ma quale delle due? Per i segnanti, entrambe: il bambino, semplicemente, crescerà bilingue. Per gli oralisti, almeno nei primi anni di vita, deve essere solo quella vocale, ed è questa la linea tenuta fino a oggi dalla maggior parte delle strutture sanitarie italiane. Ma, come sanno bene gli antropologi, una guerra che si combatte per una lingua non risponde solo alle ragioni della scienza. Piuttosto, parla di questioni legate all’identità, alla cultura, all’etnia.

Non siamo mica ladini
“La lingua dei sordi italiani deve essere l’italiano” tuona il presidente della Fiadda Antonio Cotura, oralista. “Il riconoscimento della LIS fa leva sull’articolo 6 della Costituzione, che tutela le minoranze culturali e linguistiche: i sudtirolesi, i valdostani, i ladini. Cosa c’entrano i sordi? Non si può fondare una comunità su una disabilità”.
L’Italia, però, ha riconosciuto la LIS anche in virtù della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (2006) che, tra le altre cose, invitava gli Stati membri “a promuovere e diffondere la lingua dei segni”. E il nostro era rimasto l’unico Paese a non averla riconosciuta. Gli oralisti hanno un’idea precisa del perché: “L’Italia ha un approccio storicamente più inclusivo verso la disabilità” dice Lucia Brasini, giovane architetta, tra le tante persone sorde a non conoscere la LIS. “I Paesi citati a modello di civiltà, come la Germania, hanno ancora le classi differenziali per disabili: qui le abbiamo abolite nel ’77. Il nostro è un modello fondato sull’integrazione: è su questo che dobbiamo continuare a lavorare. Io ho avuto la fortuna di avere una diagnosi precoce, una madre che ha potuto seguirmi e degli ottimi logopedisti, quindi oggi sono perfettamente integrata nel mondo degli udenti. Ma questo non dovrebbe dipendere dal censo o dalla fortuna”.
Giusto. Infatti per Giuseppe Petrucci, presidente dell’Ens, il vero problema è l’insufficienza di fondi: “Oltre al riconoscimento della LIS, chiediamo da anni diagnosi precoci, screening, protesi e qualunque supporto migliori la vita delle persone sorde. La vera inclusione è garantire a tutti la possibilità di scegliere percorsi adatti alle proprie esigenze. Con il riconoscimento della LIS sarà finalmente un diritto poter accedere a servizi di interpretariato, senza i quali chi usa solo o principalmente la lingua dei segni rimane di fatto escluso”. Per gli oralisti si tratta di autoesclusione. Il mantra dell’Ens – “la sordità è una disabilità complessa e necessita di risposte complesse” – non li convince: gli oralisti vogliono appartenere al mondo degli udenti.
Ed è qui che il dibattito si fa identitario. “I sordi hanno il diritto di appartenere anche al mondo dei sordi” dice Alessio Di Renzo, sordo, collaboratore tecnico del laboratorio Lacam (Language and communication across modalities) del CNR di Roma, dove si studia l’acquisizione del linguaggio nei bambini sordi e non. “Noi non sentiremo mai come gli udenti, e l’idea che il sordo debba seguire il modello udente riduce la sordità a una patologia. Avere la LIS, oltre all’italiano, ci rende anche una comunità”. È la differenza tra deafhood, sordità come condizione identitaria, e deafness, sordità come patologia.

Punk, ebrei o gay?
Molti oralisti, però, rifiutano alla LIS lo status di lingua. Secondo Bruno Gervasoni, pedagogo con quarant’anni di esperienza nella riabilitazione dei bambini sordi, “le tecnologie hanno sostanzialmente sconfitto la sordità: perché insistere con la LIS? I bambini esposti precocemente alla lingua dei segni tendono a preferirla a quella verbale, perché è più semplice. Ma non ha le sue stesse potenzialità. Ha una struttura, un lessico e un’espressività limitati”.
La ricerca degli ultimi quarant’anni indica invece che le lingue dei segni sono lingue a tutti gli effetti. “Su questo convergono tutte le evidenze linguistiche, psicolinguistiche e neuro-scientiche” spiega Francesco Pavani, del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello dell’Università di Trento. “E se anche la LIS non riuscisse a veicolare tutti gli aspetti della lingua vocale, varrebbe comunque la pena proporla da subito ai bambini: il presupposto dello sviluppo linguistico non riguarda solo la sfera acustica, ma comunicativa. Dipende cioè da un’interazione efficace e precoce tra genitore e bambino. Se i genitori aspettano passivamente l’impianto cocleare si perde tempo prezioso. L’anacronismo non è della LIS, ma del dibattito sulla LIS”.
Tra i pionieri di questa visione c’è Virginia Volterra: nel 1981 è stato il suo gruppo di ricerca, all’Istituto di psicologia del CNR di Roma, a mostrare che la LIS ha proprietà e caratteristiche strutturali simili a quelle delle lingue parlate. Come ogni lingua, ha un lessico ricco. Parole dai significati puntuali, come “armadio per l’asciugatura della pellicola”, o estremamente sottili, come “torpore primaverile”. Usa la metafora (“stare zitti”, per esempio, si dice mettendo le mani in tasca). Ha i sinonimi e le parolacce. Dialetti regionali e gerghi legati alle scuole in cui si è studiato. In sostanza, è una lingua naturale, cioè emersa spontaneamente nella cultura sorda. Che a ottenerne il riconoscimento sia stata proprio la Lega, storicamente sensibile alle rivendicazioni delle minoranze culturali, non sembra un caso. Per molti, invece, lo è. Se poi si dà la parola ai deaf studies, che studiano le comunità sorde come oggetti sociali e antropologici, si scopre che la cultura sorda ha molto più in comune con il punk che con i padani.
Amir Zuccalà è un antropologo con diverse pubblicazioni sul tema, di cui la più famosa è Cultura del gesto e cultura della parola (Meltemi). E spiega: “Non esistono altre disabilità che abbiano dato vita a un complesso di manifestazioni che si possa definire cultura. Perché nella sordità c’è la lingua. Diversi elementi, però, fanno pensare più che altro a una ‘controcultura’. La cultura si trasmette di genitori in figli, quella sorda no: molti sordi scoprono il mondo dei sordi nell’adolescenza, e da lì inizia un processo di identificazione nella comunità che può assumere caratteri di militanza. Per questo alcuni studi vedono un parallelismo con la comunità gay. Altri con la comunità ebraica, perché entrambe non sono legate a un luogo geografico. In una ricerca americana hanno chiesto a persone sorde, gay e nere “tu cosa ti senti?”, e la prima risposta è stata sordo“. Quanto al dibattito tra oralisti e segnanti: “Il problema non si porrebbe se l’accesso alla società fosse garantito a tutti”.

di Giulia Villoresi