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Martina, che ha portato la Lis sul palco del Don Giovanni
Redattore Sociale del 20/11/2021
La 23enne bolognese, sorda dalla nascita, ha interpretato la serva di donna Elvira nell’opera di Mozart messa in scena al Teatro Duse di Bologna dall’Orchestra Senzaspine, nella sua versione inclusiva per sordi e ciechi. “Sono sempre stata affascinata dal mondo del teatro, ma ne sono sempre stata esclusa: questa volta invece mi sono sentita accolta”.
BOLOGNA. “Sono sempre stata affascinata dagli spettacoli di teatro e dall’opera, ma ne sono sempre stata esclusa. Recitare sul palco del Don Giovanni è stata un’esperienza incredibile, perché mi ha permesso di entrare in quel mondo, di venire accolta e di sentirmi parte”. Martina Biasin, bolognese di 23 anni, è sorda dalla nascita. Da subito ha imparato la Lingua dei segni italiana (LIS), la sua lingua madre: ed è stata proprio la LIS a portarla sulla scena del Don Giovanni di Mozart dell’Orchestra Senzaspine (diretta da Tommaso Ussardi), l’opera “inclusiva” pensata per un pubblico fatto anche di persone sorde, cieche e ipovedenti. Ma le persone con disabilità sensoriale non stanno solamente sedute in platea: alcune di loro sono state coinvolte nella realizzazione dello spettacolo, che dopo un lungo percorso partecipato, con quattro laboratori sensoriali, si è tenuto il 4, 5, 6 e 7 novembre al Teatro Duse di Bologna.
Sul palco dell’opera, i personaggi in alcune scene segnano in LIS, i sottotitoli in una versione più grande aiutano sia i sordi che gli ipovedenti, e il libretto di sala illustrato, semplificato e scritto in grande è pensato per persone che hanno difficoltà a leggere. Nel foyer del teatro c’è una mostra tattile con le tavole delle scene e i modelli dei costumi, e le persone cieche attraverso un QR Code possono anche “ascoltare” il libretto di sala letto da un attore.
“Io avevo partecipato al laboratorio “Toccare il suono”, organizzato dall’Orchestra Senzaspine in avvicinamento dello spettacolo, per sentire la vibrazione della musica tramite un palloncino mentre i musicisti suonavano il loro strumento – racconta Martina -. Dopodiché, una collega che conosceva l’Orchestra mi ha detto che stavano cercando dei sordi segnanti, per far parte del gruppo tecnico per rendere lo spettacolo davvero inclusivo. Sono andata a un incontro e ho conosciuto il regista, Giovanni Dispenza: mi ha subito colpito, era molto aperto e in ascolto. La sua idea era che che sulla scena i cantanti-attori e le comparse facessero qualche segno in Lis per tradurre le parole più importanti: ‘morire’, ‘aspettare’. L’obiettivo non era divulgare la lingua dei segni, ma usarla in maniera artistica. Partecipando a questo gruppo tecnico, un giorno Giovanni mi guarda e mi dice: ‘Ho un ruolo per te: la serva di donna Elvira (una delle protagoniste dell’opera, ndr)’. All’inizio non volevo, non avevo mai messo piede su un palcoscenico. Poi però Giovanni mi ha detto: ‘Ora o mai più’. Così mi sono buttata”.
Martina è cresciuta a Molinella, nella campagna bolognese, con i suoi genitori, anche loro sordi segnanti. Per dieci anni è andata dalla logopedista, per imparare a parlare correttamente e a leggere il labiale. “Ho sempre vissuto contemporaneamente in due mondi: quello dei sordi e quello degli udenti”, spiega. Adesso sta studiando all’università per prendere la laurea in Educatore sociale e culturale, e lavora alla Fondazione Gualandi, dove fa l’educatrice con i ragazzi stranieri sordi. Nel frattempo fa anche volontariato all’Ente nazionale sordi, organizzando attività e giochi con i bambini sordi, per stimolare l’immaginazione e la creatività. Tanti intessi, insomma, ma il teatro prima non le era mai piaciuto.
“Non ho un bel legame con il mondo del teatro e dell’opera, perché non ho mai avuto reali possibilità di capire quello che stavo vedendo – racconta Martina -. Quando qualcuno mi dice: ‘Andiamo a vedere un’opera?’, la domanda mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro, anzi, essendo sorda mi viene da dire che mi entra in un occhio e mi esce dall’altro, visto che so leggere il labiale – ride -. A parte gli scherzi, una volta sono andata a vedere uno spettacolo con la scuola: era molto interessante e la prof ci avrebbe interrogato sul contenuto. Il problema era che io non avevo capito niente, alla fine vedevo i miei compagni discutere e condividere il proprio pensiero, mentre io ero esclusa. Mi è salita molta rabbia: anche a me sarebbe piaciuto avere quella opportunità”.
Il Don Giovanni, quindi, è stata un’occasione per riappacificarsi con un mondo che prima le sembrava ostile. “Una volta che entri nelle dinamiche del teatro e che capisci come funziona, il teatro ti entra nel cuore e non ne esci più”. A metà ottobre ha cominciato le prove, ma non tutto è stato facile come poteva apparire all’inizio: “Naturalmente ci sono state delle difficoltà: per me era molto difficile capire le parole quando gli attori cantavano, o quando usavano termini antichi nei dialoghi, non riuscivo a seguire – continua Martina -. Spesso chiedevo di vedere il testo, per poi riuscire a tradurre in LIS. Per fortuna tutti sono stati molto attenti alle mie necessità, mi hanno accolto e hanno cercato di mettermi a mio agio. Abbiamo lavorato molto sul feedback e su come comunicare tra di noi al di là del suono: ad esempio, quando donna Elvira finiva di cantare, mi doveva guardare e darmi un segnale, così io iniziavo a segnare”.
Il Don Giovanni dell’Orchestra Senzaspine, secondo Martina, può diventare allora il modello per un’opera che sia veramente inclusiva. “A volte a teatro mettono a disposizione delle persone sorde una app o un tablet, per leggere i sottotitoli – spiega -. Ma quella è una cosa a parte: se leggo i sottotitoli su un dispositivo, come faccio a vedere l’azione, l’espressione dei personaggi, la scenografia? Faccio sempre su e giù con la testa e finisce per essere molto faticoso”. La ricetta per un teatro alla portata di tutti? “Sarebbe bello che in futuro qualcuno mettesse in scena uno spettacolo muto, senza parole né musica – conclude Martina -, perché tutti siano sullo stesso piano e capiscano cosa significa davvero vedere uno spettacolo senza il suono”.
di Alice Facchini