Il Mattino di Padova del 03/04/2022

Le difficoltà di Chiara, 23 anni a seguire le lezioni durante il Covid: non potevo essere autonoma, su questo il Bo ha fallito.

PADOVA. il racconto. «É impossibile comprendere il mondo nascosto dietro le mascherine. Per chi non sente, il mondo, oggi, è muto e incomprensibile». Chiara Rossi-Sebastiano ha 23 anni, è piemontese di Rivarolo Canavese e lo scorso 17 marzo si è laureata alla facoltà di Ottica e Optometria dell’Università di Padova. Chiara è sorda dalla nascita, porta le protesi acustiche, per la comprensione legge il labiale e non conosce la  LIS, la lingua dei segni. Stando alla sua tesi di laurea, potrebbe essere la prima optometrista sorda in Italia. Il percorso per arrivare a questo traguardo è stato molto impegnativo, ostacolato ancor più dalla pandemia e soprattutto da una risposta non sempre ottimale dell’Ateneo alle esigenze di una studentessa nelle condizioni di Chiara. «Non ho intenzione di autocommiserarmi» spiega «Chiedo semplicemente di dare voce alla mia ansia perenne scaturita dall’inevitabile svantaggio che sono riuscita a colmare, affinché persone in situazioni analoghe si sentano motivate e soprattutto non sole». Con il Covid, Chiara si è ritrovata «confinata nelle mura di casa e, in più, emarginata. Ho vissuto in una bolla perché la didattica a distanza non combacia con le mie possibilità». Le lezioni telematiche erano spesso incomprensibili per «i ritardi dell’audio, i blocchi delle videolezioni o la sincronizzazione mancata tra audio e immagine che mi impedivano di leggere il labiale. Alcuni professori parlavano fuori campo mentre sul monitor proiettavano le diapositive. Quando le lezioni venivano registrate e messe a disposizione sulla piattaforma informatica, impiegavo il triplo della durata della lezione per comprendere il tutto e prendere appunti, ricorrendo spesso all’aiuto del mio fidanzato quando non riuscivo a capire le parole. E questo nonostante provassi a riascoltare e rivedere il video dieci, venti, trenta volte». Chiara si è appellata al servizio di stenotipia fornito dall’università: «Credevo si trattasse di una sottotitolazione in diretta, in realtà era una pura trascrizione in formato Word di ogni parola. Mi ha aiutato con la comprensione, ma il tempo necessario a “sbobinare” una lezione si è spaventosamente allungato. Con il documento Word aperto, andavo a cercare nella videolezione il preciso istante in cui quelle parole venivano pronunciate per capire di quale slide stesse parlando oppure quale calcolo matematico stesse facendo il professore». Tre ore di lezione, per Chiara, si traducono in otto ore di lavoro. «In base alle possibilità dell’ufficio di stenotipia, ho potuto scegliere solo 3 lezioni su 5. Ho lasciato scoperte le lezioni dei corsi che avevano meno crediti o che avevano delle dispense ricche. Per capire le esigenze dei professori e soprattutto per sapere se le dispense di per sé erano sufficienti per superare l’esame, ho comunicato epistolarmente con ciascun professore: ci sono stati professori più disponibili e coerenti di altri». Non sono mancati i momenti umilianti: un professore, denuncia Chiara, non ha mai caricato le lezioni su “moodle”, la studentessa ha dovuto seguirlo in diretta, ma la mascherina indossata rendeva impossibile la comprensione. «Alla mia cortese richiesta di abbassarla, ha spento la videocamera». Senza nemmeno una scaletta di argomenti messa a disposizione, «ho avuto uno scambio epistolare con il suo assistente che come libro di testo mi ha consigliato un manuale molto specifico da 928 pagine, da 139,99 euro in formato Kindle, spesa per me insostenibile. Altresì la versione lievemente più economica era esclusivamente in inglese». Su questo sono stati interpellati l’ufficio disabili, la segreteria didattica e il presidente del corso. Chiara denuncia la condotta di altri due docenti. «Il primo ha sempre tenuto lezioni telematiche senza inquadrarsi, scriveva su tavoletta grafica e mi aveva assicurato che tutto ciò che diceva lo scriveva. All’esame in presenza gli rivolsi una domanda e non sapeva come parlarmi: gli chiesi di abbassare la mascherina – la distanza di sicurezza necessaria c’era – ma non lo fece e si ostinava ad urlare. Al secondo tentativo si abbassò la mascherina, ma si mise volutamente la mano davanti alla bocca, deduco per i “droplet”, e al terzo tentativo mi parlò scandendo eccessivamente le parole, senza usare la voce. Si creò una situazione a dir poco comica per gli altri, imbarazzante e mortificante per me», il racconto di Chiara. E ancora: «Il secondo, pur essendo a conoscenza della mia condizione, in risposta all’unica domanda che feci in tutto il corso, mi urlò di lasciarlo spiegare e che non capiva perché non ero attenta. La domanda l’ho rivolta durante una delle prime lezioni e per ovvi motivi ho preferito non rivolgerne più a lui». Il racconto di Chiara è lungo e forte, ma veramente forte è il messaggio finale: «Non ho potuto cavarmela in autonomia ed è qui che UniPD ha fallito. Ho riscontrato tanta ingenuità nei confronti del mio handicap uditivo perché in ogni esame mi sono state sottoposte domande riguardanti nozioni non presenti sulle dispense, nonostante avessi contattato più volte ciascun professore per assicurarmi della completezza del loro materiale. Per quanto studiassi, tutti i giorni dalla mattina alla sera, non era mai sufficiente: di rado ho ottenuto risultati veramente soddisfacenti. Malgrado ciò, ho sempre accettato i voti per amor proprio anche quando ritenevo di essere stata vittima di ingiustizie. Alla fine è solo un numero che non mi definisce, e mi sono rassegnata. Sono sempre stata abituata a studiare sodo e ottenere risultati alti, ma di fronte a barriere così grosse, neanche il mio metodo e il mio impegno mi hanno permesso di riguadagnare i risultati che merito. Mi sento molto appagata dalla mia laurea, sono felice che questo percorso arduo sia finito. Si è conclusa un’era e, anche se ci sono ancora le mascherine, guardo con speranza al mio futuro».

di Nicola Cesaro