Il Fatto Quotidiano del 27.05.2019

I sordi e gli “udenti”: un ristorante a Roma per lasciare il segno

Una giovane imprenditrice ha lanciato la sfida: non sentire non significa essere incapaci di gestire locale e clientela. E finora il pubblico apprezza.

ROMA. Prima regola: non chiamateli “non udenti”, perché quel “non” è un marchio privativo. I sordi possono fare tutto tranne sentire. Seconda regola: non chiamateli “sordomuti”, perché la capacità fonica è intatta e se non parlano bene è solo perché, non sentendo i suoni, non possono riprodurli. Terza regola: non chiamate la LIS “linguaggio dei segni”: se solo foste a conoscenza della grammatica, della fonologia e delle componenti orali, il tedesco vi sembrerebbe semplice. La Lis è una lingua, anche se visivo gestuale.

Ecco, se accettate queste regole e volete immergervi in un’esperienza sensoriale unica – e non è il volantino di una spa – dovrete varcare la soglia di un ristorante romano nel quartiere Garbatella. Si chiama “One sense” e la proprietaria è Valeria Olivotti, Valla per gli amici, è una ragazza sorda di trent’anni, che nella vita si era stancata di sentirsi inabile a fare un lavoro come gli altri, nonostante una formazione da barman e manager. E allora, quale occasione migliore per dimostrare che i sordi possono fare tutto (tranne sentire) se non quella di aprire un locale tutto suo? Dopo una lunga ricerca, Valla ha individuato il posto giusto: un ex deposito di prodotti audiovisivi. E insieme con la madre – udente – ha lanciato la sfida. Una parte del personale è sordo, l’altra ha dovuto apprendere i rudimenti della Lis. Ma è questa la magia: l’integrazione, la capacità di mescolare lingue, culture e – perché no – suoni. In molti a questo punto staranno pensando a un’operazione “di nicchia”, a un luogo gestito da “disabili” (la sordità è, tra le disabilità, quella invisibile) da sostenere quando ci sono le petizioni a favore delle minoranze. Non è affatto così, anzi. Scordatevi il buonismo (anche perché i sordi, giustamente, si incazzano quando li si tratta da “minorati”). Accompagnato da un menu di alto livello, in un locale moderno dove si può ascoltare – sì, ascoltare – musica, One Sense è la dimostrazione che la diversità è soprattutto arricchimento. Non serve conoscere la Lis per mangiare, basta indicare sul menù ai camerieri sordi il numero cui corrisponde il piatto scelto. Ma vedere segnare i sordi e, spesso, anche i clienti udenti, genera la curiosità di avvicinarsi a una nuova lingua. E pure a una nuova cultura, che ha con noi molte caratteristiche in comune, ma che ha vissuto per troppi secoli relegata nei convitti. Fino a non molti anni fa, infatti, la Lis era bandita, le persone sorde erano obbligate ad anni di massacrante logopedia per imparare a parlare come noi. Oggi, per fortuna, non è più così e, anzi, in molti Paesi si sta facendo strada una nuova teoria: comunicare con i neonati attraverso le lingue dei segni, per far sviluppare precocemente le loro capacità di apprendimento. In Italia siamo ancora appesi al riconoscimento legislativo della Lis e i sordi sono discriminati nelle scuole e nelle università – basta pensare a un insegnante che spiega girato verso la lavagna in assenza di un interprete – ma è proprio per questo che esperienze come quella di Valla possono incidere. Anzi, è il caso di dire, lasciare un segno.

di Silvia D’Onghia