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Eugenia Giancaspro/Antigone, tra mondo sordo e Poetry Slam
L’Espresso del 10/11/2021
Ho incontrato Eugenia qualche giorno fa e ho subito voluto saperne di più. Mi aveva affascinato il suo modo di fare poesia. Trovo potenti i suoi testi e l’idea di interpretarli associandoli alla lingua dei segni, la LIS. Non è stato semplicissimo trovare un momento in cui dialogare con calma. Eugenia è sempre in movimento tra un impegno e l’altro, un vulcano in continua eruzione. Ma la pazienza viene premiata e alla fine ho potuto intervistarla. La rivedrò al Poetry Slam che si terrà il dieci novembre alle 19:30 al Barrio di Milano in Piazza Donne Partigiane. Dove sono sicuro che mi divertirò e ascolterò della buona poesia. Spero di riuscire a fare delle buone foto, anche se di questo dubito, sono negato.
Chi è Eugenia Giancaspro in arte Antigone?
Per dire chi sono utilizzo l’etimologia. Eugenia è la versione del giorno e significa, dal greco eu ghénos, nata bene, termine che poi ha preso l’accezione di nobile stirpe. Era il nome delle principesse, un nome che da ragazzina non mi piaceva tantissimo. Eugenia è la ragazza che va a scuola, assistente alla comunicazione di due ragazze sorde, educatrice di altri ragazzi con diversi tipi di disabilità. La notte cambia identità, assume quella nascosta di Antigone.
(Lo dice con un tono di compiacimento birichino, malizioso, di timido auto compiacimento).
L’etimologia di Antigone è un po’ incerta. Non sono venuta bene a capo del significato. Ma mi piace l’idea che significhi “nata contro”, anti che significa contro e ghénos che significa nascita. Contro perché Antigone si ribella alle leggi della città, non per pura trasgressione ma perché obbedisce a dei valori più alti che non sempre possono essere compresi. Questo suo coraggio, la farà rinunciare al mondo dei vivi e lei a un certo punto dice “Io appartengo già all’altro mondo”. In Antigone c’è anche questo tema della soglia che a me piace tantissimo. Come mi piace l’idea che lei sia nata contro natura, essendo figlia di una unione incestuosa. Mentre Eugenia è nata bene ed è facile nascere bene. Si nasce bene, non è un tuo merito. Una persona nata contro natura che ha questi valori, questa forza, questa ribellione contro le ingiustizie, anche quando vengono da chi dovrebbe garantirle giustizia, mi ha sempre affascinato.
Quindi, ho deciso di cambiare nome e di utilizzare Antigone nel mondo del Poetry Slam, nel mondo della poesia performativa. È un po’ il mio alter ego, quello che vorrei essere. È un gioco, anche perché non nascondo il mio vero nome a nessuno. Non ci tengo a nasconderlo. Però mi piace giocare con questo ossimoro.
Non sono proprio all’opposto ma in qualche modo Eugenia e Antigone sono in contrasto, e i contrasti mi piacciono.
Quindi c’è una contrapposizione tra parte del giorno e parte della notte.
Sì giorno e notte. Credo di avere dei contrasti interni come tutti noi e delle contraddizioni. Ad esempio lo slam lo faccio la sera e a scuola non mi paleso, mantengo il profilo dell’assistente alla comunicazione.
A scuola sanno di questa tua attività?
Qualcuno lo sa. Le alunne sorde lo sanno ma non vanno a raccontarlo in giro. Mantengono la discrezione, anche perché hanno pochi contatti all’interno della scuola, ahimè. E questa è una cosa che sto cercando di risolvere. Ai docenti non lo racconto. Antigone dice delle cose abbastanza schiette, senza peli sulla lingua. Certe volte ho paura di quello che potrebbe pensare chi mi legge. Quindi tendo a nasconderlo.
Qual è il tuo percorso formativo?
Ho frequentato il liceo classico a Benevento. Ho fatto lettere moderne a Padova. Non avrei potuto fare altro. Dopo lettere moderne mi sono avvicinata alla linguistica perché ho sempre pensato che tanti problemi, tante difficoltà, venivano dalla lingua. Quindi, avevo questa puerile immaginazione che se capivo come funzionava la lingua avrei capito come funzionano i pensieri, come funziona la psicologia, come funzionano le scienze, come funziona la letteratura, la poesia. Quindi, avrei risolto tutti gli enigmi. Questo a ventitré anni. Non è stato così ovviamente.
Mentre lo dice ha un sorriso ironico con una simpatica cadenza del Sud.
Quanti anni hai adesso?
Trentuno. Però ho scoperto nel mondo della linguistica il mondo della linguistica clinica. Quindi, la linguistica per la sordità e i disturbi del linguaggio. Ho cominciato a studiare le afasie, le dislessie, i deficit del linguaggio nei bambini. Poi tutto il mondo del linguaggio atipico, della lingua atipica delle persone sorde.
Dove ti sei laureata?
Ho conseguito la Laurea specialistica in linguistica per la sordità e disturbi del linguaggio, che è un percorso di scienze del linguaggio a Venezia, all’Università Ca’ Foscari, che è una delle eccellenze per quello che riguarda la lingua dei segni, che si studia all’università. Alla Ca’ Foscari c’è Gabriele Caia, professore sordo che insegna la lingua dei segni, ed è uno dei pochi professori docenti universitari d’Italia. Infine ci sono stati altri due anni di studio a Benevento proprio per diventare interprete di lingua dei segni italiana per persone sorde segnanti.
So che le persone sorde possono parlare oppure segnare, oltre a questo possono parlare e segnare contemporaneamente. Mi aiuti a capire qualcosa di più?
È lungo il discorso. C’è una legge che vieta l’utilizzo della parola sordomuto perché i sordi parlano. Sono soltanto sorde. È meglio dire persone sorde piuttosto che non udenti. Perché se no poni l’accento sul non, su qualcosa che non sanno fare. Quando in realtà i sordi anche non sentendo parlano. I metodi di comunicazione, i metodi di educazione che hanno le persone sorde sono diversi. Ognuno sceglie quello che gli calza meglio, come un vestito. Non ce n’è uno migliore o peggiore. Ogni sordo è diverso, ogni sordo avrà un mezzo di educazione diverso.
Tendenzialmente abbiamo tre tipi di sordi.
I Sordi oralisti. Sono dei sordi nati perlopiù in famiglie udenti, che hanno fatto tanti anni di logopedia per imparare la lingua vocale, leggono il labiale, parlano con la loro voce. Molto spesso senza neanche degli errori grammaticali. Sono dei parlatori davvero molto chiari ed eccellenti. La loro lingua può avere delle atipie. Nella lingua dei segni la prima cosa che non c’è, o che comunque è stata creata in maniera diversa, sono le preposizioni, i connettivi, che spariscono.
Secondo grande gruppo è quello dei Sordi segnanti. Sono sordi che fanno la logopedia, imparano la lingua vocale e leggono il labiale, ma insieme a questo utilizzano il metodo visivo gestuale, ovvero la lingua dei segni italiana. Che non è un linguaggio come alcuni la definiscono ma è una lingua con una grammatica. Lingua che non è universale ma è specifica per ogni nazione. Quella italiana è diversa da quella francese. Loro utilizzano la lingua dei segni americana come il nostro inglese per andare all’estero. In più c’è anche la lingua dei segni internazionale, che sono dei segni che un po’ tutti i sordi capiscono. Si deve comunque studiare e viene utilizzata perlopiù nelle conferenze.
C’è la lingua italiana LIS, la lingua americana LIS, la lingua internazionale LIS. Quindi, una persona sorda ha ben tre lingue da dover imparare?
Infatti. Diciamo che la lingua internazionale è una lingua artificiale che si usa perlopiù nelle conferenze e che pochi conoscono. Quando i sordi viaggiano utilizzano in genere la lingua dei segni americana, che in realtà deriva dalla lingua dei segni francese, e con la quale la lingua dei segni italiana è imparentata. Queste grandi lingue occidentali in realtà sono un po’ come le lingue romanze. Vero è che sono tutte diverse. Abbiamo dei segni arbitrari diversi. Però i segni più iconici si somigliano.
Nella lingua dei segni abbiamo due tipi di segni, quelli arbitrari e quelli più iconici. Tante volte un segno imita un gesto, imita l’azione. Da un’azione noi traiamo un gesto, dal gesto noi lo trasformiamo e lo rendiamo un segno, con una complessità. Quindi, un segno è preciso, ha un significato preciso, ha delle regole precise, mentre il gesto è vago. Quindi non si dovrebbe dire lingua dei gesti o linguaggio dei gesti, poiché un segno è preciso. Però non possiamo negare che tanti segni della lingua dei segni italiana hanno un’origine iconica o comunque hanno un’origine nell’azione. Alcuni perdono l’iconicità e diventano arbitrari. Altri la mantengono, ad esempio forbici sarà più o meno lo stesso in tante lingue dei segni. Tanto che una lingua dei segni riesce a capire un po’ meglio le altre lingue dei segni. Un segnante francese potrà capire un segnante cinese nelle cose universali, basiche. Comunque per imparare la lingua cinese dei segni ci vuole tanto tempo. Si è avvantaggiati se si è già segnanti.
La terza tipologia di cui parlavi qual è?
La terza tipologia è quella dei Bilingue, i sordi che sono sia oralisti sia segnanti. Utilizzano l’uno o l’altro metodo a seconda di dove sono o con chi sono. La mia socia con la quale faccio i corsi LIS è cresciuta come oralista, ha scelto di imparare la lingua dei segni da adulta, ed è diventata un’abile segnante sia in italiano che in tedesco.
Lei è sorda?
Lei è sorda. È cresciuta in una famiglia udente, ha ricevuto un’ottima educazione da bambina con la logopedia, con l’assistente alla comunicazione, il sostegno a scuola, e quindi l’hanno recuperata. Adesso lei non ha alcun problema cognitivo. Se invece non ti occupi dell’educazione di una persona sorda in maniera davvero, davvero approfondita, se non colmi quella distanza, rischi che quel gap linguistico crei tutta una serie di problematiche.
Quando comunichi con me articoli molto e accompagni le parole con i gesti. Ormai il tuo lavoro è diventata una seconda parte di te?
(Annuisce. Mentre il viso le si illumina. Il suo è un sì franco, che la fa arrossire).
Se dicessi che Eugenia è una donna dal carattere forte sbaglierei?
Per delle cose sicuramente. Per le cose importanti come il mondo sordo, il mio lavoro e la mia passione sì. Però per tutto il resto sono una grande indecisa e mi è difficile far valere la mia volontà. In realtà sono anche molto debole. Per le cose importanti caccio la grinta. Quello sì, anzi quasi la rabbia. Però in tante piccole cose no. Ad esempio se devo dire qualcosa di spiacevole non ci riesco.
Nella poesia però ci riesci, come in Bambola Gonfiabile o in Etna dove si capisce benissimo che sei incazzata nera con Milord.
Nella poesia ci riesco. Là viene fuori Antigone. Nella vita quotidiana è più difficile. Sto iniziando ad imparare a dire dei no. Altrimenti tendo sempre a dire sì.
***
Etna
rami come mani di burattinai
ondeggiano
al vento che tutto tange e confonde
monito e tormento
monito e tormento
monito il tormento!
e mi domando: fino a quando reggo?
io mi domando fino a quando reggo!
l’avresti detto?
la veste del successo un sudario che t’affossa collo e cranio
e nulla può
contro un corpo nudo spalancato che diventa canto e chino il capo!
in ginocchio sulla terra che si sfalda e poi mi sdruma vado sotto io sprofondo
metà globo metà donna sembro dama ma mi scorre dentro … lava!
vulnerabile vulcano parla piano
la fragilità sta nella roccia che si spezza e non si piega
e non ritorna intera! monte su monte parrebbe impedimento
ma può diventar riparo un ostacolo che
che trattenga il vento!
l’avresti detto?
la veste del successo un sudario che t’affossa collo e cranio e nulla può
contro un corpo nudo spalancato che diventa canto!
tu! nata il quattordicesimo giorno del nono mese come la diva
quella bianca con la voce nera
bella fuori bella dentro così tanto da diventare di se stessa
scempio!
lei che cento volte muore
anche tu così
muori!
vissi e niente m’incupì di più dello stormo brulicante e caotico delle rondini in cielo
e del loro urlo agghiacciante
potrei vestirmi di aloni rossi come veli
da cui vedi e non vedi questo corpo che pur segui
come in una giungla aggrapparsi e inciampare
ti piace? giocare all’amore col sangue, ti piace?
e fu subito Sabba ed io come una pazza
sono tornata a cavalcare le lepri nelle notti violacee e ventose
e la luna imbevuta di nubi sparisce e spaventa
ma io ho il piede sporco
che non parla
che fa l’unica cosa che fa: avanza!
lo senti? sono io sono il turbine di paranoie e mi contorco sono l’abito della spagnola in rosso sono questo vento burattinaio che smuove i fili e confonde
monito e tormento monito e tormento monito e tormento
e massimamente esisto in questo sfinimento
io vulcano spento, do la colpa a un aspetto di me che non governo,
sei contento, milord, sei contento?
sono reo confesso!
e uso il maschile per esprimere forza
perché in realtà
son donna.
***
Che cosa ti ha avvicinato alla poesia?
A me è sempre piaciuto scrivere, sin da quando ero bambina. Non riuscivo a trovare una forma di espressione, tante scritture le interrompevo. Nel 2015 feci uno Slam e nel 2017 ho scoperto davvero questo mondo, iniziando a partecipare assiduamente a questi contest di poesia performativa. Non sapevo assolutamente che cosa fossero. Però trovai scritto “Porta dei testi autografi”. Così mi sono detta “Caspita ma io qualche testo ce l’ho, mi piace scrivere. È una vita che vorrei avere un feedback, che vorrei leggere qualcosa di mio agli altri. Qua vogliono delle poesie”. Ho portato quelle due, tre cose, che ritenevo poetiche. Non mi definivo una poetessa. Ho portato quel poco che avevo e ho tentato la sorte.
In definitiva mi sono avvicinata alla poesia grazie a un modo davvero divertente che è quello dello Slam. Da là ho ricominciato anche a rispolverare certi libri di poesia, ho iniziato a parlare con i miei amici slammer, tantissimi sono davvero persone molto colte, che amano tutte leggere e scrivere.
Tra i poeti italiani chi ami di più?
A me piace molto Valerio Magrelli. Ho letto molto anche Montale, che ho ripreso recentemente. Tra gli artisti contemporanei, per me assimilabile a un poeta, c’è Caparezza. Trovo molto poetico il suo modo di rappare. A volte mi ricorda un po’ Dante.
Che cos’è lo Slam Poetry?
Tutti dicono che lo Slam è un format, un contesto, un evento, al quale si iscrivono sei poeti minimo. C’è un MC, cioè un Master of Ceremony, che presenta la serata. Questi sei poeti si danno battaglia, si sfidano a colpi di versi.
Sempre sei poeti?
Minimo sei per fare diventare questo Slam valevole per il campionato italiano di Poetry Slam. Chi vince ha la chances di arrivare ai campionati regionali. Chi vince i regionali rappresenta poi la regione ai campionati nazionali. Se riesci a vincere i nazionali, ed è molto difficile, rappresenti l’Italia alla coppa europea e alla coppa del mondo. Ma come si fa a vincere? Ci sono cinque persone scelte casualmente tra il pubblico, a decretare chi sarà il vincitore, con dei voti. Voti che possono essere dettati dalla pancia, da persone che non hanno mai letto una poesia, oppure da persone appassionate. È proprio casuale. Questa è una cosa bella ma anche pericolosa secondo me. Noi del mondo dello Slam alla fine non siamo in realtà davvero così competitivi. Vero è che arrivare alle nazionali ti dà l’opportunità di viaggiare, di conoscere i poeti d’Italia, giovani, appassionati come te. Sicuramente c’è il desiderio di tanti slammer di arrivare a quei livelli. È una cosa molto goliardica. A me piace perché è inclusiva. Io non ero cantante, non ero musicista, non avevo scritto libri. Avevo delle “cartacce”. Lo slam mi ha dato tre minuti di tempo per aprirmi al pubblico. Mi ha dato una grande possibilità ed è diventato davvero il mio ambiente.
Quanti sono gli slammer in Italia? Siete tanti?
Beh, ormai sì. Siamo una community. Alle nazionali si fanno degli Slam con ventun regioni, e sono rappresentate quasi tutte. Siamo diverse migliaia che seguiamo, centinaia che proviamo a dire le nostre poesie. Siamo in tanti.
Ho aperto il tuo blog, Antigone Nuda. L’ho trovato interessante. Perché l’hai chiamato così?
Questa è una domanda difficile.
(Abbassa lo sguardo. C’è un momento di silenzio quasi a cercare una risposta che la acquieti).
Beh. Antigone nuda sono io sostanzialmente, anche qualcosa che ho fatto in passato. In realtà questo lo posso spiegare con l’introduzione al mio spettacolo performativo. Io inizio dicendo che nella mia vita per una serie di volte mi sono trovata a rapportarmi al mondo come un nulla, come una bambina, come una donna che non ha più soldi, non ha più amici, non ha più nemmeno abilità. Quindi, mi sono trovata a rapportarmi al mondo nuda. E in quella condizione di nudità, di vulnerabilità, ho resistito. Ho scritto per raccontare quello che mi era successo.
Quello che provo, quello che ho vissuto, è quello che poi vado a raccontare di slam in slam.
Non ti chiedo che cosa ti è successo perché non mi sembra che tu abbia molta voglia di raccontarlo. Ognuno ha diritto ai propri segreti.
Come crei la drammaturgia per le tue poesie? Tu ti presenti con grande passionalità e veemenza. Sei la regista teatrale di te stessa. Come costruisci questa regia?
Sì. È vero, mi auto gestisco. È giusto, sono la regista di me stessa. Però è anche vero che sono cresciuta di Slam in Slam e che questo lavoro di regia è stato fatto, viene fatto, un po’ sul palco. Un pezzo nuovo si perfeziona facendolo. Il lavoro che faccio avviene in parte nella scrittura. Nella scrittura cerco di auto indurmi una specie di trance. Quando scrivo cerco di scrivere un po’ di getto. Perché la scrittura deve venire dal profondo. Non devo neanche ben capire che cos’è per essere sincera.
Tu sei l’amanuense di qualcun altro che detta la storia.
Mi piacerebbe anche essere così. Poi però sono sempre io. Sì mi piacerebbe essere un amanuense. Un’antenna che capta altre cose. È come ti dicevo il discorso della soglia. Io gioco, non è una cosa vera. Però mi piacerebbe l’idea di avere una sensibilità che mi aiuta a percepire queste dimensioni altre rispetto a quella normale. Mi piace l’idea della soglia. Noi siamo qui. Che cosa c’è oltre?
Questa è la definizione che dava Antonin Artaud quando diceva “Io per creare ho bisogno di una membrana, una membrana non troppo spessa e non troppo sottile, una membrana che mi permetta di ascoltare ciò che arriva dalla follia, di tradurla e farne opera. Se la membrana fosse troppo sottile la linea separativa si frantumerebbe e la follia invaderebbe completamente lo spazio dell’opera rendendola impossibile se fosse troppo spessa non riceverei più le voci dall’altra scena”.
Hai colto nel segno. È così.
(Si entusiasma. Ha un bellissimo sorriso aperto che emoziona).
È proprio questa cosa. Nel senso che sicuramente l’altro può essere la follia. Sicuramente l’altro può essere anche l’inconscio, l’inconoscibile. È il mistero dell’esistenza che nessuno può svelare.
Come diceva David Lynch tu prendi degli indizi, ti sembra di avere degli indizi, per capire il significato di tutto. Poi alla fine sono sempre indizi piccoli. Non arrivi mai a svelare. La scrittura può essere una raccolta di questi indizi, senza senso. Però li raccogli. A me piace questa cosa.
Tornando alla drammaturgia ti posso dire che la lingua dei segni mi aiuta in tutto. All’inizio leggevo e con la lingua dei segni è impossibile segnare e leggere. Per cui ho dovuto smettere di leggere il foglio e guardare le persone, il pubblico in sala. Spesso mi inceppavo e tuttora a volte mi succede. Perché è complesso segnare, ricordare a memoria, e soprattutto interpretare. A un certo punto mi sono sentita obbligata a smettere di recitare il testo a bassa voce vergognandomi. Ho sentito che dovevo avere il coraggio di dire quello che dicevo. Per fare questo, per recitare a voce alta, per sostenere il modo in cui lo faccio, dovevo portare qualcosa di intenso, qualcosa di vero, qualcosa che io voglio dire ad alta voce davanti alle persone. Quindi ho cominciato a togliere tutto quello che era fuffa, tutto quello che era superficiale. Ho selezionato i testi più interessanti, più degni di attenzione, e in maniera totalmente da autodidatta, a interpretarli accompagnandomi con la lingua dei segni che mi aiuta ad essere espressiva, ad avere un ritmo, ad avere una bellezza visiva che non sapevo di avere.
All’inizio slammavo e non avevo un’idea chiara di che cosa stessi facendo. Questo fino a quando non mi hanno fatto vedere dei video delle mie performance. Il mio è stato un lavoro di messa a punto spontaneo, che ho costruito di performance in performance. Migliorando di volta in volta.
Nella tua proposta non c’è soltanto una performance attoriale, della lingua italiana, del verso, della poesia. C’è anche una performance della LIS. Hai un livello alto di scrittura, la LIS non appare meccanica, fredda e asettica come quella che vediamo ai TG in televisione. Sarebbe bello spegnere il volume della televisione e guardarti recitare e segnare.
Un giorno lo farò.
Cosa ti ha portato a un livello così sofisticato e perché hai deciso di introdurre la lingua LIS nelle tue performance?
Nei primissimi Slam ero solo io con la mia voce. Ricordo che è un’amica, Claudia, mi disse “Eugenia ma scusa, guarda questi poeti. Alcuni di loro sono molto gestuali. Perché tu non inserisci qualche segno della LIS?”. Ho accolto il suo suggerimento praticamente subito. Ho iniziato a farlo con una poesia molto breve e poco dopo ho tradotto tutto.
Il 9 maggio del 2021 la LIS è diventata ufficialmente la lingua dei segni italiana.
Lo dice piena di entusiasmo.
La mia non è poesia in LIS. Nel senso che il segno segue l’italiano. Io sono italiana udente. La prima cosa che faccio è parlare. La LIS la inserisco nella mia poesia dopo e non faccio la traduzione come hai detto prima come quella del TG.
Il mio è più un italiano segnato. Ma più che altro sono dei segni che si trasformano, con cui creo una sorta di coreografia che mi dà un ritmo. Se io avessi un pubblico sordo cambierei, cercherei un contatto più ravvicinato, smetterei di parlare, segnerei soltanto. Cercherei di essere quanto più visual, visiva possibile.
In realtà questo tipo di approccio differente ho iniziato a costruirlo da poco con la mia amica sorda Ernestina De Vito, detta Stina. Lei è anche attrice e a breve dovrebbe diventerà docente universitaria di lingua dei segni a Fermo nelle Marche. Sarà una dei pochi docenti universitari sordi. Lei con me insegna la lingua dei segni nei corsi di sensibilizzazione alla LIS che facciamo insieme. Lei ha anche tradotto una mia poesia. Io già segno, ma lei l’ha trasformata in visual.
Il Visual Vernacular è una tecnica di segnato che hanno le persone sorde e l’associano alla poesia. È una tecnica molto mischiata al cinema, molto fatta di immagini. In cui un’immagine viene trasformata in segnato bello da guardare. Si chiama Visual vernacular, l’ho studiato all’università. Nel senso che so che cos’è ma non lo metto in pratica perché è proprio qualcosa che fa parte della cultura e del mondo sordo, qualcosa che in genere fanno le persone sorde. Io che sono udente utilizzo LIS come viene naturale a me, facendo un italiano segnato, comunque utilizzandola in maniera libera. Poche volte ho avuto un pubblico sordo, mi piacerebbe averlo. Se lo avessi mi trasformerei.
Se una persona sorda assiste alle tue performance può capire?
Dipende dalla persona sorda. Ma secondo me non tutto. Se sei una persona sorda oralista, con una buona educazione della lingua italiana sì. Ho avuto pubblico sordo e mi sono comportata come mi comporto durante ogni slam, e alcuni sordi mi hanno anche fatto anche i complimenti, non tanto per il segnato quanto per l’emozione che attraverso la poesia hanno percepito. A loro era piaciuta l’intensità della performance.
Bravissima. È proprio l’intensità delle tue performance che mi ha colpito. Questo tuo costruire una terza cosa che non è più italiano, non è più LIS, ma è arte.
La comprensione è difficile. Per tradurre bene un testo poetico in lingua dei segni bisogna avere dei riferimenti culturali. Bisogna avere anche il tempo di mostrarla la poesia nella sua complessità. Quindi, quei tre minuti di uno slam, tanto è il tempo a disposizione, non sono sufficienti per una comprensione. O comunque il lavoro che va fatto è ampio. Quindi, in realtà alcuni sordi possono capirlo però hanno bisogno del supporto del testo. Altri sordi probabilmente no, dipende dalla loro educazione. Il mio obiettivo futuro è avvicinare i sordi agli slam, o comunque a quello che faccio per non tenerlo solo per me. Cerco altre persone che vogliano fare questo percorso insieme a me, che vogliano elaborare la loro arte poetica in lingua dei segni.
Mi piacerebbe avere più pubblico sordo, ma soprattutto avere autori sordi insieme a me.