Essere CODA: intervista a Omar Ferroni 
Vivere Fermo del 22/03/2021

Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.

Omar Ferroni è nato a Milano nel 1976. Dopo aver trascorso l’infanzia a Moncalieri (TO), torna nella sua città Natale ma soltanto in età adulta. Inoltre, per un paio d’anni vive e lavora fuori Roma. Rientra definitivamente a Milano dopo anni spesi a crescere in aziende internazionali nel campo dell’abbigliamento, ma per un caso fortuito riscopre e riconosce il suo vero percorso professionale. “Ero nel pieno di una crisi identitaria sul piano professionale, nonostante la già piena maturità lavorativa”. Tuttavia, a seguito di alcuni incontri con persone che gli parlano di LIS, coglie l’occasione per voltare pagina. “Non pensavo minimamente potessi cambiare lavoro ma soprattutto genere”. Di nuovo a “casa” investirà i successivi 5 anni tra i corsi base LIS (1°-2°-3° livello) e terminerà il corso da “interprete” presso l’ENS di Biella. Completerà la sua formazione nel mondo della LIS con un corso di “assistente alla comunicazione” presso l’ENS di Milano dove, proprio in questo ruolo, affiancherà per diversi anni ragazzi sordi segnanti. Nel 2020, grazie alla Legge Iori (DDL 2443) sul riconoscimento legislativo della figura dell’educatore, raggiungerà la qualifica di “educatore professionale socio-pedagogico”. Oggi lavora per la sezione provinciale ENS di Milano e per la “Cooperativa Segni di Integrazione Piemonte” come interprete e docente di corsi per interpreti LIS. Attualmente è impegnato come interprete nel progetto “Dike.media” che si occupa di accessibilità televisiva di programmi di attualità sull’ omonima pagina Facebook. Ciò che viene proposto in TV, non prevede infatti la parte di svago/ludica già menzionata nella “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità”.

1) Cosa significa per te essere CODA?
Il significato della parola CODA si divide in due momenti netti nella mia vita. Il primo, in un tempo in cui sia la parola CODA (il concetto derivante dall’acronimo) sia la Lingua dei Segni, erano inconsapevolmente un modo di essere e un modo di comunicare con la mia famiglia. Il secondo, la scoperta di un punto di forza, il bilinguismo, e il riconoscere quanto essere CODA abbia fatto di me un uomo più consapevole, sensibile e orgoglioso di essere “differente”… ma con una marcia in più! Il momento di reale presa di coscienza è avvenuto durante un incontro organizzato dallo psicologo Dott. Mauro Mottinelli. La sua intuizione ha fatto sì che alcune partecipanti decidessero di riunire tutte quelle persone che avevano in comune un grande bagaglio umano ed esperienziale. Da lì l’idea di fondare CODA Italia.

2) Come e quando sei stato esposto all’italiano? 
Direi sin da subito. I miei genitori hanno sempre adottato il metodo bimodale; sapendo che ero udente, segnavano e parlavano. Nonostante io avessi ben chiaro quale modalità comunicativa utilizzassero i miei genitori, ero in grado di cambiare canale comunicativo in base a chi avevo di fronte. Difatti quando stavo con i nonni paterni udenti mi comportavo in un modo, con i nonni materni sordi in un altro.

3) A scuola ti sei mai sentito diverso dagli altri? 
Devo ammettere che all’inizio, nella fase pre-adolescenziale, non avevo mai sentito questa “diversità”. Crescendo a Moncalieri, cittadina in cui ero l’unico “figlio di sordi”, ciò che avevo intorno mi faceva capire che in realtà lo ero veramente. A differenza di tutti gli altri i miei genitori non partecipavano alle riunioni scolastiche per ovvi motivi di accessibilità (parliamo degli anni ’80). Ecco allora che alla consegna delle pagelle avevano sempre incontri brevissimi con i docenti. Alcune volte mi sono trovato a fare da interprete seppur con enorme imbarazzo e difficoltà. Da un lato comprendevo che i miei genitori dovevano essere supportati, dall’altro lo facevo controvoglia, conscio di essere di troppo in una conversazione tra adulti. A scuola anche le relazioni con i coetanei hanno lasciato delle ferite profonde che mi sono portato dietro per diverso tempo. Sicuramente il mio carattere introverso non mi è stato di aiuto. In quei frangenti mi rendevo conto che non avevo nessuno con cui condividere quel dolore. Capivo di essere diverso nel momento in cui la mia famiglia doveva interagire col mondo esterno. Ho avuto bisogno di un lungo periodo di elaborazione per comprendere che in realtà stavo imparando a trasformare quel dolore in qualcosa di “speciale”.

4) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)? 
I benefici sono molteplici vista la grande plasticità mentale che ha l’essere esposti a due lingue. Trattandosi di Lingua dei Segni, senza rendermene conto ho acquisito tutta quella parte “visiva” che una persona udente solitamente non sfrutta poiché esposta prevalentemente agli stimoli uditivi. Anche il mio italiano è cambiato radicalmente nel momento in cui, avvicinandomi sempre più al mondo dell’interpretariato, ho imparato a controllare la mia voce e soprattutto ad ascoltarmi mentre parlo. Ho imparato a stare in due mondi tanto diversi e a godere appieno di entrambi, senza filtri, acquisendo le peculiarità di ogni cultura. Riconosco anche una certa sordità nel mio essere udente!

5) Cosa apprezzi maggiormente della cultura sorda? 
Della cultura sorda apprezzo l’ironia, credo di aver fatto le migliori risate della mia vita proprio per delle battute in LIS! È una lingua diretta, concreta e chiara, capace di esprimere sfaccettature che la voce non riuscirebbe a rendere. Ho imparato a vedere il mondo circostante con occhi da “sordo”. Ho compreso la bellezza del silenzio ma anche il dolore di non poter condividere il suono. Mi è stata data la libertà di poter scegliere chi essere. Il fatto di comunicare con il corpo nonché l’attenzione che si dedica all’altro quando si segna (attenzione e feedback visivo) sono alla base di questa cultura.

6) Diventare interprete LIS e Assistente alla Comunicazione: scelta o senso del dovere? 
Direi illuminazione! Come accennavo prima mi sono ritrovato in un momento topico della vita (avevo 32 anni, per l’esattezza) a chiedermi quale strada prendere. Continuare in un ambito in cui avevo esaurito l’entusiasmo o inoltrarmi in qualcosa di nuovo ma allo stesso tempo conosciuto sin dalla tenera età? Mi sono detto: “Cosa sai far bene?” La risposta è arrivata poco dopo.

7) Ritieni che il riconoscimento della LIS possa cambiare l’attuale situazione lavorativa degli interpreti e degli Assistenti alla Comunicazione? 
Il riconoscimento della LIS è essenziale per poter costruire una società inclusiva. Noi come operatori del settore avremmo finalmente la legittimazione dovuta e la società attuale ne gioverebbe in termini di emancipazione e accessibilità per la comunità sorda e non solo. Uscire dal limbo della Legge N° 4/2013 per essere riconosciuti come professionisti ma anche per rendere servizi di qualità garantendo degli albi ad hoc, i quali porterebbero la categoria a elevare gli standard e ad avere maggiore controllo e conseguente monitoraggio della reale presenza nel territorio. Non sarebbe una mera necessità lavorativa, bensì un allinearsi alle altre realtà europee.

8) Qual è la tua opinione in merito a un’eventuale stabilizzazione al MIUR degli Assistenti alla Comunicazione? 
Sembra che il MIUR abbia intenzione di inquadrare gli assistenti alla comunicazione come ATA. Il diritto di divenire parte integrante dell’organico scuola sicuramente darebbe quella continuità, ad oggi mancante, che ricade sui professionisti dediti al proprio lavoro. Garantire e riconoscere una professionalità è la chiara condizione per far evolvere un sistema “sordo”, come anche riconoscere un ruolo specifico a dei lavoratori aventi pieno diritto al pari dei docenti di ruolo. Sulla base della mia esperienza e di quella di altri colleghi/e, la figura dell’assistente alla comunicazione ha un ruolo chiave nella rete studente/classe, studente/ insegnanti e scuola/famiglia. La sua presenza è fondamentale dato che il sistema scuola, ad oggi, conosce poco o quasi per nulla di sordità. Avere un professionista in grado di guidare nelle scelte più consone per un bambino/ragazzo sordo, può fare davvero la differenza. Sentirsi tutelati come lavoratori eviterebbe quella naturale dispersione di “professionalità” strettamente legata al precariato tipico di questo ambito.

9) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi? 
Una volta la mia professoressa, nel momento cruciale della scelta delle scuole superiori, mi disse: “Hai deciso cosa fare dopo le scuole medie?” Io risposi: “Sì prof.ssa, voglio insegnare ai bambini sordi!” Lei conoscendo le mie doti scolastiche, in modo carino ribatté: “Caro Omar, per te sarebbe meglio un bel corso professionale.” Al momento una parte di me riconosceva e capiva quel suggerimento e quel ricordo si è perso nel tempo. Oggi, nonostante la mia vita avesse preso una piega diversa, posso dire di avercela fatta!

10) Qual è il tuo motto? 
La fortuna non esiste, esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione. (Seneca)