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La lingua dei segni entra a scuola
La lingua dei segni entra a scuola
BOLZANO. «In Alto Adige siamo indietro. Dobbiamo svegliarci, perché i sordi esistono. Sono almeno settecento. Nelle scuole e sul lavoro servirebbe un affiancamento per le persone sorde». È Alessandro Cusini a parlare, ossia il presidente della sezione altoatesina dell’Ente nazionale sordi, affiliata alla Federazione provinciale per il sociale e la sanità. Siamo indietro, ma ora sta per cambiare tutto. O, almeno, ci si spera vivamente. Il Senato ha appena approvato un ddl, ora alla Camera, sul riconoscimento ufficiale della Lis, la lingua dei segni italiana. Su espressa richiesta dell’Ens altoatesino e dei parlamentari Svp, in commissione è stato inserito un emendamento particolarmente importante. Recita: «Nella provincia autonoma di Bolzano il linguaggio mimico gestuale tedesco e tutte le forme di comunicazione alternativa aumentativa tedesca sono equiparate a quelle della lingua italiana». Insomma, si garantirà il bilinguismo dei segni.
«Non appena la legge passerà anche alla Camera», prosegue Cusini, «dovrà essere rispettata anche qui da noi. La nostra associazione conta su 228 membri, ma le persone interessate sono almeno settecento: adulti, bimbi, anziani». In Alto Adige siamo indietro. «Più di altre regioni». Qui manca addirittura l’informazione. In più le cose sono complicate dal bilinguismo italiano/tedesco, perché le due lingue dei segni non sono appunto una bensì due. Insomma, per dirla altrimenti: c’è il multi-bilinguismo. L’Ens spinge perché questa lingua dei segni sia conosciuta, perché possa essere scelta e usata da chi lo desidera. Ora, dopo l’approvazione della legge, il riflesso più importante sarà questo: «A scuola si avrà diritto, se lo si vorrà, a imparare la lingua dei segni e alla presenza in aula di interpreti e insegnanti ad hoc. Si concretizzerà finalmente il diritto ad abbattere le barriere alla comunicazione». Oggi, se lo si chiede, la scuola può rifiutarsi. In futuro non potrà più. La Provincia, volente o nolente, dovrà adeguarsi.
Non è detto che tutti chiederanno la Lis. Perché – spiega con i gesti il presidente grazie all’interprete, la psicoterapeuta Maria Fornario – per insegnare ai sordi a esprimersi ci sono tre vie: logopedisti che insegnano a parlare anche ai sordi; impianti cocleari per risolvere con la tecnologia e far “sparire” l’handicap; infine c’è la Lis. Sembrerebbe il metodo più datato, è invece il più adeguato, efficace. Veloce da imparare, elastico. Come dice Cusini esprimendosi magnificamente «è la madrelingua di noi sordi». Nulla contro chi utilizza gli altri due metodi, ma la tecnologia degli impianti permette di non vedere un handicap che invece continua ad esserci. E lo spingere sull’oralità, il costringere a parlare chi non sente, è vissuto da molti non udenti come una violenza. Finora, non essendo un diritto, l’insegnamento della Lis poteva anche non essere concesso, motivo per cui molti bimbi e ragazzi diventavano di fatto degli emarginati, obbligati a parlare per farsi capire.
Si chiama metodo oralista. E a Cusini non piace. Racconta: «Sono sordo dalla nascita, mi hanno insegnato a parlare, so parlare. Ma ho sofferto molto, a dover imparare. Ho subito, come tanti altri, dei danni morali. Poi, quando a 17-18 anni ho scoperto l’Ens e il linguaggio dei segni, la mia vita è migliorata enormemente». Ma non è solo un’idea, un’impressione del presidente. «In America, dove sono avanti anni luce e la lingua dei segni è molto diffusa e valorizzata, pensavano che si sarebbe risolto tutto con gli impianti cocleari. E invece, le statistiche dicono che la situazione è peggiorata. Chi conosce la lingua dei segni si integra molto più velocemente di chi viene costretto a parlare o a farsi impiantare. “Mio figlio ora parla” non basta. “Mio figlio adesso ci sente” non basta. Come stanno, veramente, queste persone?» Chi è sordo, chiarisce ancora Cusini, fa anche difficoltà a leggere, si stanca in fretta. Perché i normodotati vedono nella scrittura l’immagine scritta dei suoni che conoscono visto che li sentono; per i sordi non è così. Per loro è un’altra lingua. «La loro lingua sono i segni».
Questo è il discorso generale. Che declinato in salsa altoatesina suona ancor più complesso. Ci provano da anni quelli dell’Ens – ci venga scusato il gioco di parole – a farsi sentire. Devono sempre far marcia indietro. Mancano, per dirne una fondamentale, statistiche precise sul fenomeno. «Anche a noi piacerebbe sapere». Quanti sono i potenziali utenti di un servizio Lis? Perché puoi anche recarti all’ente pubblico a chiedere qualcosa, ma per mettere in piedi un servizio, per pianificare, servono statistiche. In Alto Adige, poi, la situazione è complicata anche da altro. «Troviamo difficoltà». Qui si è sempre guardato al proprio ombelico e se qualcuno, da fuori, portava idee nuove, ci si chiudeva a riccio. «Noi vorremmo la massima accessibilità, ma c’è stata una sorta di scontro con la popolazione di lingua tedesca. Fanno fatica ad accettare un futuro così, sembrano un po’ spaventati. Saremo i primi, in Italia, a riconoscere la Lis. Nemmeno in Austria o Germania lo si è fatto. Chi voleva impararla, prima doveva andare a Verona o a Innsbruck, ma in Austria ora hanno tagliato i fondi. Noi vorremmo aprire una scuola bilingue dei segni qui, un fiore all’occhiello dell’Alto Adige. Saranno gli altri a venire a imparare da noi. Dateci una mano».
di Davide Pasquali
Fonte: Alto Adige del 13-11-2017