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Essere CODA: intervista a Samuele Castucci
Vivere Fermo del 25/07/2021
CODA (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.
Samuele Castucci è nato a Savigliano (CN) l’11 aprile 1985. Dopo la maturità scientifica ha conseguito la laurea in giurisprudenza, a pieni voti, discutendo una tesi di diritto penale commerciale, intitolata “aggiotaggio societario e manipolazione del mercato”.
Il 21 ottobre 2015 si è abilitato come avvocato presso il Foro di Torino.
Cosa significa per te essere CODA?
La mia situazione è peculiare perché, essendo rimasto orfano sin dall’età di 4 anni, sono cresciuto praticamente solo con mio papà. Ciò premesso, essere CODA penso comporti la necessità di crescere e maturare prima, perché la sordità del genitore pone di fronte a difficoltà aggiuntive che costringono a imparare a “cavarsela da soli”. Io, però, sono un inguaribile ottimista. Nella mia esperienza ho cercato di valorizzare le potenzialità dell’essere CODA: sin dagli anni del liceo, infatti, ho conseguito gli attestati necessari per le traduzioni in simultanea dalla lingua parlata alla Lingua dei Segni Italiana (LIS) e viceversa. La LIS, che da bambino utilizzavo per comunicare con mio papà, poi è diventata un lavoro – quello di interprete – parallelo allo studio. Ad oggi, la LIS rappresenta per me una special skill, da utilizzare nella professione di avvocato.
come si sono conosciuti i tuoi genitori?
I miei genitori si conobbero al convegno mondiale dei sordi tenutosi nel 1983, organizzato dall’Ente Nazionale Sordi di Palermo. All’epoca, mio papà era un giovane di belle speranze per la dirigenza dell’ENS e mia mamma una delle interpreti del convegno. Fu colpo di fulmine. All’inizio degli anni ’80 l’interpretariato non era diffuso come adesso e il fatto che mia mamma fosse udente, con un’ottima conoscenza della LIS, favorì la conoscenza, il fidanzamento e il successivo matrimonio, da cui sono nato. Questo spiega anche il mio profondo legame con tutta la comunità sorda, l’ENS e la LIS.
Quali valori e insegnamenti pensi ti abbiano trasmesso?
Mio papà è sempre stato un grande lavoratore: come impiegato, come dirigente dell’ENS e come docente di LIS. Terminato il lavoro in fabbrica, infatti, si recava a tenere i vari corsi serali di LIS. Per quasi 40 anni, inoltre, è stato anche dirigente dell’ENS rivestendo varie cariche provinciali e regionali, sempre come volontario. Confesso di non aver capito immediatamente il motivo per cui dovesse lavorare così tanto, ma ho avuto modo di comprenderlo negli anni: tutti quegli sforzi mi hanno consentito di studiare, sino al conseguimento dell’abilitazione da avvocato. In sintesi, credo mi abbia trasmesso due valori: l’abnegazione per il lavoro (e lo studio), come unico modo per raggiungere dei risultati e il mettersi al servizio del prossimo, cercando di aiutare gli altri.
A scuola o in altri contesti ti sei mai sentito diverso dagli altri?
La differenza tra i CODA e gli altri credo sia innegabile. Nella maggior parte dei casi, i genitori cercano di favorire i propri figli anche sfruttando le proprie relazioni personali. Volendo usare quella che ritengo un po’ una metafora della vita, ad esempio, si pensi al cercare di arruffianare l’allenatore della squadra di calcio del bambino, per fare in modo che giochi più degli altri. Così avviene anche in altri contesti, come quello scolastico, tanto per citarne uno. I CODA sanno bene, però, che non potranno avere questo tipo di aiuto e che dovranno conquistare il posto da titolare solo coi propri mezzi.
Che cos’è la cultura sorda?
La cultura sorda è un insieme di tanti elementi. In primo luogo, la LIS (o, in alternativa, la lettura labiale per i sordi “oralisti”, ossia comunicanti senza l’uso della lingua dei segni), ma anche tutta una serie di comportamenti, modi di fare diversi da quelli utilizzati dalle persone udenti. Faccio due esempi: tra le persone udenti, sarebbe considerato inappropriato porsi di fronte a una persona sconosciuta e presentarsi, mentre nella comunità sorda, questo è assolutamente normale. Il motivo è molto semplice: essendo la comunità sorda numericamente ristretta, c’è il grande desiderio di conoscere gli altri sordi, di frequentarli, di passare del tempo con loro (questo spiega anche il perché, nelle occasioni di ritrovo, si rimanga a segnare fino a notte fonda!). L’altro esempio potrebbe essere la consuetudine di chiamare le persone toccandole cosa che, invece, risulta molto sgradita agli udenti. Qui il motivo è intuitivo: il contatto è l’unico modo per attirare l’attenzione di un sordo girato di spalle.
Quali pensi possano essere i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)?
L’essere bilingue apre la mente: la LIS, come ogni altra lingua, ci permette di accendere dei fari su diversi aspetti della conoscenza. Una vecchia pubblicità della Telecom recitava “comunicare è vivere!” (peraltro, lo slogan era anche segnato durante lo spot!). L’essere bilingue consente di vivere appieno due realtà differenti e trovo sia culturalmente molto arricchente.
Perché hai scelto di diventare avvocato?
Era il sogno di quando ero bambino, per la precisione, inizialmente, avrei voluto fare il Giudice. Penso di averlo esternato per la prima volta a 5 o 6 anni.
Crescendo, però, ha prevalso in me il gusto per la sfida, la ricerca della vittoria e, così, ho optato per l’Avvocatura. Inizialmente, in famiglia non mi credeva nessuno, poi dopo la laurea anche i parenti più scettici hanno cominciato a ricredersi. Infine, alla festa per la mia abilitazione da avvocato, stappando la bottiglia, sorridendo, ho detto a tutti i presenti: “Io ve l’avevo detto, sono stato di parola!”
Come sei riuscito a conciliare la tua attività con il mondo della sordità?
La mia attività ha due binari: il mondo degli udenti e quello dei sordi. Le due sfere non si incrociano quasi mai, ma qualche volta mi capita di dover spiegare in Tribunale aspetti particolari della sordità o della cultura sorda (ad esempio, la grande necessità – e voglia – dei sordi di spostarsi per incontrare gli amici, dovuta al fatto che, numericamente, vi sono poche persone sorde oppure questioni legate alla sordità in sé).
Cosa ti aspetti dal recente riconoscimento della LIS?
Anche se siamo stati l’ultimo paese in Europa a riconoscere la LIS, sicuramente questo è un grande passo in avanti verso la civiltà. Ho grandi aspettative dal punto di vista dell’accessibilità alle varie informazioni e dei diritti, in particolare per quanto riguarda l’inserimento scolastico. La cosa più fondamentale è che gli studenti sordi possano – finalmente – avere un assistente alla comunicazione per il 100% delle ore scolastiche su tutto il territorio nazionale e non solo in alcune zone, come purtroppo ancora avviene. Al riguardo, però, ho anche un auspicio: dato che la LIS è parte integrante della cultura sorda, mi piacerebbe che rimanesse tale e che, pertanto, siano i sordi a insegnare la loro lingua, senza che altri soggetti la usurpino.
C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con i lettori?
Dopo aver saputo di aver superato l’esame da avvocato, ho salutato la commissione e mi sono dimenticato di aspettare la consueta lettura dei voti. Sono uscito per sfogare un’esultanza da “Champion’s League” e poi mi hanno riferito che il presidente della commissione ha detto, ridendo: “beh, non si può dire che non sia un ragazzo grintoso!” In realtà ero molto felice, ma soprattutto dovevo avvertire papà che aspettava quel giorno da sempre.
Qual è il tuo motto?
Da buon liceale, non può che venirmi in mente un brocardo latino: “per aspera ad astra” (lett. “attraverso le difficoltà, sino alle stelle”). In fondo, nella vita come nelle competizioni sportive, la soddisfazione deriva dalla difficoltà dell’impresa compiuta.
di Michele Peretti (redazione@viverefermo.it)