Lo Spazio Bianco del 15-03-2019

“La voce delle cose”, un fumetto per capire chi non sente

Nel volume “La voce delle cose” edito da ComicOut, Cécile Bidaut crea un fumetto senza parole sui segni e la sordità con la vocazione da libro illustrato d’infanzia, delicato ma a tratti distante.

Le storie mute sono una delle possibilità della grammatica del fumetto, che permette di mettere su carta un racconto attraverso una sequenza di immagini priva dei canonici testi a corredo, che siano all’interno di baloon o didascalie o nella rappresentazione grafica delle onomatopee.

Nell’arte sequenziale più popolare questa possibilità è stata esplorata in storie umoristiche, per bambini o aventi animali come protagonisti, oppure in casi in eccezionali come singole sequenze o episodi speciali. Sono esempi la serie manga Gon di Masashi Tanaka, Love di Frédéric Brrémaud e Federico Bertolucci, la collana No Words edita da Phoenix negli anni ‘90 con lavori di Giuseppe Palumbo, Silvia Ziche, Francesca Ghermandi e altri, e alcune opere di Lewis Trondheim, da La Mosca alla serie Piccolo Babbo Natale, mentre il comic americano si è più volte cimentato in episodi muti come i ‘Nuff said della Marvel.

Negli ultimi anni questa possibilità è approdata anche al mondo della graphic novel, in cui si è fatta sempre più frequente un’esplorazione del fumetto muto e del silent book con un approccio più sperimentale o simbolico, affrontando anche temi delicati, come i casi de L’Approdo di Shaun Tan o Prosopopus di Nicolas De Crécy.

Cécile Bidaut decide di sfruttare questa tipologia fumettistica prendendola alla lettera in La voce delle cose: la protagonista del racconto è infatti una bambina muta e la storia viene narrata attraverso il suo punto di vista. Il volume in realtà non è completamente privo di parole: per tre tavole del primo capitolo, incontriamo qualche didascalia. Si tratta del racconto della protagonista stessa, ormai adulta, che introduce il momento in cui la famiglia trasloca in campagna, espediente che non viene più ripetuto nell’intero arco del fumetto.

Non racconta una vera storia il libro della Bidaut, ma attraversa l’arco di quattro stagioni della vita della bambina in questa nuova casa. Bambina che, come tutti gli altri personaggi in una storia in cui mancano le parole, non ha mai un nome.
Si tratta di una collezione di situazioni che mettono in scena l’ambientarsi in un nuovo contesto, la scoperta di un nuovo amico fino all’arrivo di una violenta alluvione.

Ci sono momenti delicati, ma il fumetto non rincorre una poetizzazione fine a se stessa: sono infatti messe in scena le difficoltà e le frustrazioni di una famiglia a cui manca una canale comunicativo, soprattutto perché, come approfondito nell’introduzione al volume, la storia si colloca intorno agli anni ‘70, quando la lingua dei segni è di fatto vietata e ancora si cercano altri modi per comunicare con i sordomuti, con risultati altalenanti.

Senza questa informazione la lettura del volume rischia però di risultare in qualche modo monca: alcuni passaggi ne risultano criptici e stranianti, lasciando quanto meno perplesso il lettore che non abbia nessuna nozione in merito alla sordità. La breve sequenza in cui la protagonista sembra provare di nascosto il linguaggio dei segni in questo modo può suonare strana per un pubblico anagraficamente più giovane e abituato, soprattutto nella sua rappresentazione all’interno di storie, a collegare automaticamente questo tipo di linguaggio a personaggi sordomuti.

La mancanza di qualsiasi onomatopea e delle parole è estremamente efficace nel far calare il lettore all’interno del mondo silenzioso della protagonista. Il racconto è rarefatto e procede attraverso piccoli momenti, corte sequenze con una vocazione animata. Le elissi tra una vignetta e l’altra infatti in questi passaggi sono brevi, a volte brevissime, avvicinandoci tantissimo all’idea di movimento.
Lo stile dei disegni, semplice e quasi infantile, è tangente ai canoni del libro illustrato per l’infanzia e utilizza spesso splash page o vignette scontornate. Pochi segni per delineare i volti, che diventano minimali in quelli dei bambini, appena due punti per gli occhi e pochissime linee per gli altri connotati, che però sono sufficienti a raccontare l’ampia gamma emotiva dei personaggi e della storia. Pochi anche i segni per oggetti e ambienti, che tuttavia risultano chiari e ben definiti, al contrario della natura dove i segni si fanno più caotici e demandano soprattutto ai colori, nelle tinte tenui e pastello che caratterizzano le tavole e che accentuano i toni delicati del racconto, la loro definizione.
In alcuni momenti poi il disegno e le impostazioni scelgono il simbolismo e l’onirico, cercando ad esempio di esemplificare con colori e segni l’ascolto delle vibrazioni di una radio invece della musica o riempiendo di pesci un cielo in tempesta. O, ancora, se è vero che non sono presenti le parole, non mancano però i baloon, vuoti o comunque contenenti pochi segni intellegibili, la cui presenza arriva a farsi ingombrante in una efficace metafora.
La voce delle cose ci racconta un sospeso, un modo di essere e di (non) sentire. Forse a volte tenendoci anche distanti dal racconto in uno strano effetto di transfert con l’isolamento sonoro della protagonista, in un’ambivalente immersione e distacco, tra momenti di piena empatia e altri di più fredda lettura
Probabilmente quel breve momento in cui appaiono delle parole finisce per essere uno dei maggiori colpevoli di questa strana distanza perché, infrangendo la natura del resto del fumetto, creano un’aspettativa che si trova frustrata quando non tornano più nemmeno sul finale, lasciandoci nell’attesa di un ulteriore senso o una chiusura più netta.

di Paolo Ferrara